Lettera aperta al Prof. Galimberti
La coscienza di sé. Il Professore Umberto Galimberti su D di Repubblica della scorsa settimana rispondendo ad un lettore che gli chiedeva: ” ….Quale utilità ha per l’uomo avere coscienza di sé? A quale fine ultimo si è formata la coscienza di sé nel corso dell’evoluzione?” Egli scriveva: “……Nella coscienza di Sé la coltura greca antica vide l’essenza tragica della condizione umana….….Lei non è mai stato sfiorato dal sospetto che le religioni che promettono una vita ultraterrena abbiano avuto successo proprio perché con quella che gli antichi Greci chiamavano ‘cieche speranze’, oltrepassavano la dimensione tragica messa bene in luce dalla sapienza greca. E, oscurata dalle religioni della promessa, per evitare che l’umanità perisse davanti alla visione lucida della tragicità del proprio destino?”
Alcune considerazioni personali sulla coscienza si sé.
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Caro Professore,
la leggo con voglia tutte le settimane. La considero un maestro. La stima che ho per lei ha forse una valenza in più rispetto ai tanti suoi estimatori, sono un collega psicoanalista junghiano.
Tante volte ho raccolto da lei a titolo personale ma anche, sono certo, per la professione. La risposta di oggi però: “A quale fine si è formata la coscienza?” non solo non mi trova d’accordo, ma la sento arrogante ed inutile, come è inutile ogni atto di fede. Professore la sua risposta manca di dialettica. Non ci sono possibilità, non c’è il dubbio nel suo argomentare. E’ “oppio”.
Veramente per lei vale solo la cultura greca? I millenni di cultura orientale e poi quella ebraico-cristiana e direi in tutte le altre civiltà sono cancellabili con un semplice “cieche speranze”?
Perché chiudersi in una univoca e depressiva lettura della genesi del mondo e non considerare ciò che Jung scriveva: “Nessuno può essere guarito se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso”.
Sappiamo bene che l’atteggiamento religioso ben poco ha a che vedere con l’atto di fede anzi ne è l’antitesi. L’atteggiamento religioso significa umiltà nella consapevolezza che siamo piccoli e ci divide l’incommensurabile dalla Verità. Significa rispetto per quanti raccontano di sé qualcosa che non possiamo valutare, conoscere: dio. Significa speranza.
Ogni medico, ogni terapeuta non solo dovrebbe averla per sé la speranza ma, dovrebbe possedere un bagaglio di esperienze che gli permette di conoscere che tutto è possibile oltre la nebbia dell’imminente.
Il terapeuta sa che la “risurrezione” è sempre possibile perché in noi, fortemente nevrotici, alberga il male ma anche dio. Il terapeuta viene tutti i giorni a contatto con la sconfitta ma anche con il miracolo e sa che sono in gioco potenze che non può declinare.
Come scriveva Ludwig Wittgenstein nel “Tractatus”, là, dove doveva analizzare il rapporto tra il linguaggio e la metafisica, egli lasciò la pagina bianca. Fece silenzio, con un solo commento: “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
- Con immutata stima.
Di Renzo Zambello il libro: ” Ricordi e riflessioni di uno psicoanalista”. Ed. Kimerik
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