La morte tra filosofia moderna e psicoanalisi

La morte
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La morte: un tema filosofico e psicoanalitico

Conversazione con Bruno Moroncini

Si è svolto  il seminario La morte tra filosofia moderna e psicoanalisi, condotto da Bruno Moroncini, docente di Antropologia filosofica all’Università degli Studi di Salerno, già vicepresidente del Centro lacaniano di studi psicoanalitici, al quale abbiamo posto alcune domande.

Quali le convergenze e quali le divergenze tra filosofia moderna e psicoanalisi riguardo  e la morte?

Come è noto Freud introduce nella sua teoria delle pulsioni quella di morte dopo la prima guerra mondiale e lo fa non tanto perché quella guerra si fosse rivelata già agli occhi dei contemporanei come una immensa carneficina e come la prova di un’aggressività umana difficilmente se non assolutamente inestirpabile, ma per la sua incidenza sull’esperienza soggettiva.

Ciò che aveva colpito Freud era, sulla scorta delle ricerche psichiatriche e psicologiche sui reduci di guerra, il fatto che il trauma bellico, negato o obliato sul piano della coscienza, tendeva a ritornare intatto nei sogni e nei sintomi nevrotici. Era la spinta alla ripetizione inconscia del trauma quel che aveva guidato Freud nell’elaborazione di una pulsione, il cui scopo fosse il ripristino di una condizione anteriore della vita del soggetto, da cui quest’ultimo era come impossibilitato a liberarsi.

Da qui la tesi generale che dal momento che lo stato anteriore del vivente è il non vivente, la pulsione in questione non possa che essere di morte. Non diversamente le cose vanno in campo filosofico: anche per Heidegger la modalità dell’ “essere per la morte”, tematizzata nel 1927 in Essere e tempo, come la cifra più propria dell’essere dell’esserci, cioè dell’uomo, è in gran parte l’eco, se non la registrazione, degli effetti della prima guerra mondiale almeno per come era stata vissuta da una certa parte dell’intellettualità tedesca, esemplata nelle opere di Erns Junger e cioè come un riscatto dalla vita generica e mediocre della modernità.

Da qui una grande differenza con l’opera di Freud: per Heidegger l’essere per la morte generato dall’angoscia è la condizione affinché l’uomo possa avere un’esistenza autentica, cioè appropriata alla sua essenza, resa sempre più difficile dalle condizioni di vita della società moderna.

Solo l’anticipazione della propria morte, non nel senso del suicidio, ma in quello della consapevolezza del carattere finito di tutti i nostri progetti di vita, inevitabilmente segnati infatti dalla possibilità che la morte li interrompa e ne impedisca il compimento, permette per Heidegger all’uomo di non disperdersi nella impersonalità del “si”, del così si fa e così si dice, prodotta dalla burocratizzazione della vita moderna, di non ridursi a mero numero o a ingranaggio della macchina sociale, ma di essere in grado di dare un senso alla sua vita. Forse l’unica cosa che potrebbe accomunare due concezioni della morte così distanti è il fatto paradossale, ma non tanto, che la centralità attribuita alla morte da pratiche teoriche decisive come la psicoanalisi o discorsi filosofici centrali per il nostro tempo come quello heideggeriano convive, forse proprio perché ne è il risultato più conseguente, con la progressiva scomparsa della morte dall’esperienza degli uomini della modernità. Si potrebbe pensare che è proprio perché scompare dalla percezione dei viventi che la morte si impone nel pensiero.

La morte: quando e come si è determinata una svolta nei confronti del morire nella modernità?

In piena aderenza alla ricerca freudiana anche per Benjamin è stata l’esperienza della prima guerra mondiale a fungere da spartiacque nella moderna considerazione della morte. La scomparsa della morte dalla percezione dei viventi è andata di pari passo con il deperimento della capacità di fare tesoro dell’esperienza accumulata e con l’arte della narrazione.

I reduci tornavano dalla guerra non desiderosi di raccontare quel che gli era capitato, ma completamente ammutoliti, come se nella durata del conflitto si fosse consumata una spaccatura irrimediabile fra il passato e il presente, il prima e il dopo: il trauma della guerra aveva rotto quella continuità dell’esperienza che permette di guardare a ritroso il cammino percorso, ricostruendone le tappe nonostante che il territorio che si era dovuto attraversare fosse non solo sconosciuto, ma anche irto di pericoli – l’etimologia della parola esperienza rinvia infatti ad un passaggio, un andare attraverso luoghi ignoti dai quali però si esce rafforzati e consapevoli -.

Un’esperienza compiuta è quella che è in grado di divenire racconto, di passare attraverso la parola. Se quest’ultima è però una parola autorevole, una parola in cui si può aver fiducia, sicuri che racconti il vero e non sia animata dal desiderio di ingannare, ciò è dovuto proprio al fatto che essendo sempre l’esperienza un incontro con l’ignoto, essa implica necessariamente la messa a rischio della vita: all’orizzonte di qualunque esperienza fa sempre capolino la morte. Si capisce allora in che senso il collasso dell’esperienza comporti l’espulsione della morte dalla percezione dei viventi: se non si riesce a raccontare più niente ciò è dovuto al fatto che l’esperienza fondamentale, quella appunto della morte, è diventata muta, che continua certamente ad iscriversi nel corpo, ma senza alcuna possibilità di tradursi in un discorso, restando del tutto refrattaria a diventar parola.

Tuttavia l’aspetto più rilevante del discorso di Benjamin sta nel fatto che il cambio di percezione per la morte non riguardi soltanto la sfera dell’arte del narrare, sostituita nel migliore dei casi dal romanzo moderno e nel peggiore dall’informazione giornalistica, né modifichi le coordinate della vita privata delle persone, ma produca piuttosto dei cambiamenti rilevanti nelle forme di vita e nelle abitudini sociali, trasformando i modi concreti del morire: con parole che sembrerebbero scritte l’altro ieri, Benjamin, già negli anni trenta del secolo scorso, denunciava la crescente abitudine di trasferire l’attimo del trapasso dalla calda accoglienza della propria camera da letto, in cui si poteva morire attorniati dall’affetto dei congiunti desiderosi di ascoltare le ultime parole del morente, all’asettico e freddo letto d’ospedale in cui si muore circondati tutt’al più dalle apparecchiature tecniche.

La morte sotto cure intensive ed in ospedale: è questa l’ineludibile prospettiva dell’attuale morire?

Probabilmente sì. Se come sembra la medicalizzazione della morte non è altro che l’estrema propaggine di quella della vita nel suo insieme, il processo è per il momento inarrestabile. Esso riguarda infatti non il campo ristretto di una tanatologia, ma quello allargato di una biopolitica, cioè di una politica della vita in generale.

Secondo Michel Foucault le forme del potere hanno subito negli ultimi due secoli una trasformazione decisiva: da potere di dare la morte e di lasciar vivere, la sovranità moderna è diventata un potere di far vivere e di respingere nella morte. In altre parole mentre il potere antico era caratterizzato essenzialmente dal diritto di vita e di morte del sovrano sui suoi sudditi, mentre la conduzione della vita era lasciata alle morali tradizionali e/o all’iniziativa dei singoli, quello moderno è esclusivamente interessato all’incremento della vita, al suo benessere, mentre abbandona alla morte o ve la costringe quella vita il cui carattere degenerato costituisca un pericolo per la realizzazione del suo scopo.

Del tutto conseguentemente per Foucault la biopolitica moderna è caratterizzata da una spaccatura fra la vita buona, la vita da salvare e incrementare e quella cattiva che invece va estirpata: le guerre moderne sono da questo punto di vista guerre biologiche come quella nazista, il cui obiettivo era l’eliminazione degli ebrei trattati alla stregua di parassiti portatori di malattie e quindi oggetto di una semplice disinfestazione.

Ma al di là di questi esiti estremi, che tuttavia costituiscono il sottofondo della modernità e di cui non è mai del tutto scongiurata la possibilità di una ripetizione, è tutta la nostra vita a essere sottoposta al biopotere: da questo punto di vista non esiste nessuna differenza fra la medicalizzazione spinta della morte e tutto il sistema di prevenzione cui, in piena salute, sottoponiamo il nostro corpo.

Le campagne contro il fumo, quelle contro l’obesità, i controlli periodici, la spinta mediatica perché si adottino modelli di vita salutisti, sono l’altra faccia della medaglia delle cure intensive, dell’accanimento terapeutico, del divieto alla “buona morte”, che caratterizzano le nostre società e la cui necessità non è sostenuta soltanto da morali di ispirazione religiosa. Se questo è la situazione nella quale ci troviamo e continueremo a stare per parecchio tempo, è gioco forza tentare di reimettere all’interno degli ospedali le possibilità di dare di nuovo la parola ai morenti, di ripristinare quel tessuto dell’esperienza che il deperimento delle forze e la consapevolezza della fine imminente già di per sé tendono a strappare, senza che un apparato di potere non si incarichi di rendere del tutto impossibile una qualche ricucitura.

Parlare con i morenti non vuol dire distrarli dal processo che ineluttabilmente si sta compiendo dentro di loro, ma permettergli, parlando della loro morte, di avere ancora un futuro, non certo della loro vita ma nella memoria dei sopravissuti. Non era questo il senso delle “ultime parole”? Restare per sempre – almeno il sempre possibile agli umani – nella memoria degli altri?

di MAURIZIO MOTTOLA

da:  http://www.agenziaradicale.com

Commento del Dott. Zambello

  • Riporto in calce la traduzione di una intervista a Jung (da: http://andreagentile.wordpress.com) sul tema della morte. (1960 circa)  Il video lo potete trovare in inglese su: Youtube :

http://www.youtube.com/watch?v=LOxlZm2AU4o&feature=related 

  • Ne risulta  una interessante    comparazione fra i diversi pensieri filosofici e psicoanalitici .
  • Int. : Ricordo che una volta dicesti che la morte, a livello psicologico, è importante tanto quanto la nascita……. ma la morte è una fine?
  • Jung: Se la morte è una fine non si sa con certezza, perchè sappiamo che ci sono queste particolari facoltà psichiche che non sono interamente confinate in uno spazio e in un tempo; possiamo avere sogni o visioni…. [ha detto altre cose che io non ho capito]….., e tu esisti e probabilmente sei sempre esistito. Questi fatti dimostrano che la psiche in parte non è dipendente da questi confini, e quindi se la psiche non è sotto l’obbligo di vivere solamente in uno spazio ed in un tempo (e di certo non lo è), allora è ammesso che praticamente c’è una continuazione della vita e quindi una sorta di esistenza oltre il tempo e lo spazio.
  • Int. : Tu credi che la morte sia una fine?
  • Jung: Bene, io non posso dire credo…. credere è una cosa difficle per me, io no credo, devo avere delle ipotesi, se lo conosco non ho bisogno di crederci……. quando ci sono sufficienti motivi per una certa ipotesi, io devo accetarla, potrei dire che dobbiamo riconoscere quantomeno la possibilità della sua esistenza.
  • Int. : (Qui gli fa una domanda sulla morte come fine certa e su che visione dovrebbero avere gli anziani rispetto la morte)
  • Jung: Io ho trattato molti pazienti anziani ed è molto interessante vedere come l’inconscio agisce sulla concezione della morte come apparentemente definitiva… Io penso che è meglio per le persone anziane guardare avanti al giorno successivo, come se ci fossero secoli ancora da vivere e solo così vivrà correttamente,….. se al contrario sarà spaventato e guarderà indietro si pietrificherà, si irrigidirà e morirà prima del suo tempo. Ma se guarderà avanti guardando fiducioso nella grande avventura della vita che ha davanti, allora vivrà…. e questo è il vero significato al quale tende l’inconscio. Dato che è abbastanza ovvio che moriremo tutti e questo è il triste finale di tutto….. [ anche qui c’è un passaggio che non ho ben compreso dato il suo inglesco]…. Io non so perchè abbiamo bisogno di un’anima, ma preferiamo avere anche un’anima, perchè in questo modo ti senti meglio, e così quando pensi in una certa maniera ti potrai considerevolmente sentire meglio….. e penso che se pensi attraverso le linee della natura, pensi correttamente!
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3 commenti

  1. si vive per quello che si fa, si muore (si perde) per quello che non si fa, è nell’incontro e nell’atto dei due postulati precedenti che si concludono nell’atto che compendia il fascino della vita e il mistero della morte; si vive nell’eterno atto del generare e del dare. Il nulla non esiste la morte è trasformazione e divenire…

  2. Ho letto questo interessante articolo, e devo dire che mi è piaciuto. Io però spesso, da varie fonti, ho sentito dire che bisognerebbe vivere come se l’istante successivo fosse l’ultimo; e che solo così si può vivere intensamente e bene. Jung, a quanto ho capito dice l’opposto. Lei cosa ne pensa? Mi scusi se la domanda può sembrarle inopportuna, in ogni caso, grazie per i suoi articoli.

  3. Un’ultima considerazione, se è vero che lo scenario che si presenta intorno a noi, e che noi ci ri-rappresentiano nella nostra mente concettualizzandolo è un trionfo della vita, dietro lo specchio delle nostre rappresentazioni il filosofo vede anche il trionfo della morte. È una cosa alla quale non pensiamo mai perché le religioni e le metafisiche hanno fatto di tutto per farcelo ignorare; per esse ciò che importa è il rapporto tra l’umano e il divino come causa-prima-ultima (Dio-Volontà o Dio-Necessità). Come l’evoluzione della materia abbia portato all’umano ad esse non importa un bel nulla, il passaggio divino umano per loro è dato da un fiat! divino che ignora stadi intermedi, catastrofi biologiche, estinzioni e degenerazioni. Per la metafisica la formazione del mondo, della vita e infine dell’uomo è un percorso lineare, progettato, determinato, “ideale”, dove la morte non trova posto. Orbene, la biologia ci insegna che tutto ciò è falso, che alla quantità di vita che esiste su questa pianeta fa da contrapposto una quantità mille molte maggiore di morte e che lo “spreco di vita” è impressionante. Questo libro vuole anche far pensare a questo che vita e morte sono strettamente connesse. C’è vita perché tanta morte la consente e l’alimenta. Qualche volta basterebbe pensare ai milioni di spermatozoi morti perché uno di essi ci generasse.

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